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Perché i fondi dell’UE non bastano per la crescita del Sud

by Vittorio Daniele
11/02/2016
in Conti Economici Regionali, Lavoro e Occupazione
A A
Salari, investimenti e produttività nel Mezzogiorno

 

I modesti risultati della politica di coesione

Con la crisi economica, il problema del ritardo del Sud è passato in secondo piano. Eppure i dati mostrano come sia stata proprio la parte meno sviluppata del paese a subire maggiormente gli effetti della recessione. Dal 2007 al 2014, il Pil del Mezzogiorno si è ridotto del 13 per cento, a fronte del 7,4 del Centro-Nord. Gli investimenti hanno subito un crollo. La già gracile base produttiva meridionale è uscita fortemente ridimensionata dalla recessione. Negli anni di crisi, disoccupazione, precarietà e povertà sono cresciute in tutto il paese, ma al Sud in proporzione assai maggiore che al Nord. Le prospettive non sono incoraggianti. Salvo shock positivi, l’Italia sembra avviarsi verso una fase di crescita strutturalmente debole, in cui ogni obiettivo di politica economica è subordinato al rispetto degli impegni di bilancio. E come mostra la storia, nelle fasi di crescita lenta il divario Nord-Sud generalmente non si riduce, semmai aumenta.

In uno scenario di crescita fiacca, che ricorda lo stato stazionario descritto da Adam Smith, sembra velleitario pensare che, nei prossimi anni, le risorse per il Mezzogiorno possano aumentare. Del resto, ormai da qualche anno, gli interventi per lo sviluppo sono finanziati, quasi integralmente, dai fondi strutturali europei. Risorse che, piuttosto che sostituire, dovrebbero aggiungersi a quelle ordinarie. È bene ricordare, comunque, che i fondi europei sono, in realtà, risorse nazionali. L’Italia, infatti, è un contributore netto al bilancio europeo. I fondi strutturali sono, in altre parole, risorse italiane che, in parte, vengono restituite al nostro paese attraverso la politica di coesione della UE.

Stranamente, si parla spesso della capacità delle Regioni di spendere i fondi europei e assai meno dei risultati conseguiti. Certo, il rischio che una parte (esigua) dei fondi non venga spesa esiste. Ma sono in realtà i risultati, più che la spesa, a essere modesti. Le regioni arretrate continuano a rimanere tali, i divari economici e sociali restano ampi, mentre la convergenza con le regioni più avanzate (l’obiettivo principale della programmazione comunitaria) è ancora lungi dal realizzarsi.

L’importanza delle politiche nazionali

Considerato che, nei prossimi anni, le risorse saranno sempre più scarse, si dovrebbe puntare ad aumentare l’efficienza della politica strutturale. Tanto più in questa fase, in cui si sta per avviare il ciclo di programmazione 2014-2020. La materia non manca. Le esperienze fatte in Italia (a partire dal 1989) e il confronto con quanto avvenuto in altri paesi, mostrano come i risultati delle politiche strutturali dipendano sia da fattori locali, sia (e forse soprattutto) da fattori nazionali. Quelli locali sono ben noti: inefficienza burocratica, frammentazione degli interventi e, probabilmente, anche mancanza di «domanda» per alcune tipologie di interventi particolarmente innovativi, che richiedono competenze e progettazione avanzate. Ma non sono solo questi i vincoli. A pesare è anche il quadro nazionale. I fondi strutturali vanno spesi secondo le regole e le (spesso bizantine) procedure europee,  a cui si sommano le norme e le pastoie derivanti dalle procedure nazionali. Si può chiedere efficienza europea nella spesa se, in Italia, per realizzare un’opera pubblica di importo superiore a 100 milioni di euro si impiegano, in media, quasi 15 anni, di cui sette solo per la progettazione e l’affidamento dei lavori? Se ciò accade ordinariamente, non stupisce che i fondi strutturali vengano, in larga misura, destinati a progetti «coerenti», cioè a progetti normalmente finanziati con risorse nazionali che, per accelerare il processo di spesa, vengono poi attribuiti ai fondi comunitari e pagati con essi. Così facendo, i livelli di spesa sono garantiti. Ma si perde ciò che davvero conta, ovverosia il carattere addizionale dei fondi UE.

Non sono solo barocche burocrazie regionali e nazionali a rallentare gli interventi. A pesare sono anche i vincoli del patto di stabilità interno e i tempi necessari per ottenere pareri, approvazioni e visti da parte delle diverse amministrazioni interessate. Se si vuole avere una controprova di quanto tali vincoli contino si guardi, per esempio, ai Paesi dell’est Europa, che ancora non hanno adottato l’euro, destinatari di quasi il 50 per cento della dotazione dei fondi strutturali, in cui l’assenza di vincoli di bilancio e norme certo assai meno farraginose delle nostre consentono un utilizzo rapido e incisivo delle risorse.

Una paradossale conclusione

In sostanza, al netto delle (non poche) inefficienze locali, i risultati dei fondi strutturali dipendono dall’efficacia delle politiche ordinarie. Detto in altri termini, lo sviluppo delle regioni arretrate non può essere considerato come indipendente da quello del Paese nel suo complesso. Si può pensare di sostenere l’industria al Sud se non c’è un disegno di politica industriale? E lo sviluppo dei porti e della logistica non richiedono, forse, una programmazione complessiva? I porti di Gioia Tauro o Napoli sono questioni locali o non, invece, parte di un sistema più ampio? Le inefficienze burocratiche riguardano, poi, solo le amministrazioni periferiche? Se così fosse, il problema sarebbe, tutto sommato, circoscritto. Se non fosse che sono innumerevoli norme nazionali – tra cui, stranamente, continua a trovare spazio la discrezionalità dei burocrati – a soffocare gli investimenti interni e a scoraggiare quelli esteri. In breve: la politica per il Mezzogiorno necessita di buone politiche nazionali.

Come si legge nel resoconto di un’indagine conoscitiva promossa dal Senato nel 2009, i modesti risultati delle politiche di coesione sono anche dovuti alla «riduzione dell’afflato meridionalista del dopoguerra nella politica nazionale, tanto che viene da condividere la pur paradossale affermazione che i fondi strutturali europei, più che promuovere lo sviluppo del Mezzogiorno, hanno contribuito, liberando fondi nazionali, al risanamento dei conti pubblici italiani, di cui, peraltro, ha implicitamente beneficiato anche lo stesso Mezzogiorno». E, aggiungeremmo, soprattutto il Nord.

Vittorio Daniele

Vittorio Daniele

Vittorio Daniele è stato Professore ordinario di Politica Economica presso l’Università Magna Graecia di Catanzaro. La sua attività di ricerca ha riguardato, principalmente, i divari regionali in Italia in prospettiva storica e l'economia dello sviluppo. Oltre a numerosi articoli ha pubblicato i volumi: La crescita delle nazioni. Fatti e teorie, Rubbettino, 2008; Il divario Nord-Sud in Italia 1861-2011 (con Paolo Malanima), Rubbettino, 2011; Il Paese diviso. Nord e Sud nella storia d'Italia, Rubbettino, 2019 (il volume ha ricevuto il Premio Sele d'Oro Mezzogiorno 2020).

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