Braccianti in catene: la Piana di Sibari tra sfruttamento e agromafia

Sotto un sole che cuoce la terra e spacca la pelle, l’estate calabrese mostra il suo volto più feroce. Le campagne della Piana di Sibari non profumano di frutta matura ma di sudore e sopraffazione.  Tra le zolle secche di Cassano allo Ionio e Corigliano‑Rossano, centinaia di stranieri, perlopiù africani e asiatici, continuano a lavorare in condizioni al limite della sopravvivenza, senza contratto, né protezioni legali. Non sono invisibili.  Sono volti consumati dalla miseria, privati perfino di quella pietas che spetta ai vinti. Ben noti alle organizzazioni criminali che ne gestiscono reclutamento, trasporto e paga da fame.

Il lavoro nero: piaga strutturale

Secondo l’ultimo rapporto ISTAT (2024), la Calabria registra un tasso di lavoro irregolare pari al 19,6%, con oltre 117.000 lavoratori in nero. In agricoltura, l’irregolarità tocca punte del 16,8%, un dato superiore alla media nazionale. A livello italiano, si stimano oltre 200.000 braccianti irregolari, spesso pagati 2 euro l’ora o meno. Il lavoro agricolo è sempre più stagionale, precario, intermittente. Il volume di lavoro nel primo trimestre 2024 ha subito un calo dell’1,6%, segno che la manodopera viene ancora usata come carne da macello nei periodi di punta, e poi abbandonata.

Agromafie e caporalato: la filiera del sopruso

Nella Sibaritide, secondo diverse inchieste giudiziarie tra cui “Demetra” e “Kossa 2”, alcune strutture criminali attive nel territorio – ricondotte anche a realtà locali – avrebbero gestito il caporalato come un’attività strutturata e redditizia. Gli stagionali sono trattati come oggetti: trasportati all’alba, controllati, sottopagati, minacciati. Ribellarsi significa sparire. Uscire dal giro, essere dimenticati. Chi osa contestare l’ordine dei padroni viene espulso come un ingranaggio rotto, dimenticato, silenziato. Lo sfruttatore comanda la vita: assegna il lavoro, regola il riposo, controlla il cibo. E mentre l’unica acqua disponibile è quella torbida e stagnante dei fossi, i lavoratori abitano baraccopoli senza luce né dignità.

Intanto, le merci raccolte finiscono nei nostri supermercati con etichette rassicuranti, che nulla raccontano del sangue versato per ciascun frutto estivo raccolto a mani nude sotto il sole impietoso.

Quali risposte sono possibili?

Per fortuna, non tutto tace. Progetti come Su.Pr. Eme.2, attivo da maggio 2025, stanno aprendo poli sociali a Cassano e Corigliano, offrendo assistenza legale, mediazione culturale, trasporti sicuri e accoglienza dignitosa a chi ogni giorno manda avanti i nostri raccolti. Ma le forze in campo sono ancora esigue.

Esperienze virtuose come quelle di NoCap, fondata da Yvan Sagnet, dimostrano che un’alternativa è possibile: contratti regolari, stipendi giusti, abitazioni decorose. Non è utopia: è il segno concreto che anche nei campi più sfruttati può germogliare giustizia. Anche in Calabria, sindacati e cooperative sociali propongono un distretto agroalimentare etico, basato su certificazioni verificate, filiere trasparenti, e il coinvolgimento dei consumatori. Perché la libertà, anche quella dei migranti, passa anche dal carrello della spesa.

 Le azioni urgenti e necessarie

Serve un cambio di passo immediato. Il lavoro stagionale nella Sibaritide non può più essere lasciato alla spirale dell’abuso sistemico e del lavoro irregolare. Di seguito, alcune misure da attivare subito per affermare valore umano, legalità e diritti.

Non si tratta di inventare il futuro: si tratta di smettere di accettare un presente disumano. E di agire adesso.

 Non una fine, ma un appello
Quello che accade nella Piana di Sibari non è una deriva, è un sistema criminale che si ripete ogni giorno, sotto gli occhi accidiosi – cioè stanchi, indifferenti, complici – di un’intera comunità locale che ha smesso di indignarsi. Ed è tempo di disarticolarlo. Non con le buone intenzioni, ma con interventi strutturali, leggi applicate, verifiche sul campo capillari e cultura della legalità. In queste terre splendide e ferite, la manodopera straniera non chiede carità, ma giustizia: quella giustizia che si misura in tutele, contratti e sguardi che riconoscono. Non serve pietà, ma dignità. Perché la persona – a differenza dell’anguria – non si pesa a chilogrammi, ma in diritti.

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